Storia di Panagulis, poeta della libertà («Il Venerdì di Repubblica»)
“Guarda gli uomini, hanno più paura di vivere che di morire. Così tanta paura di vivere che preferiscono uccidersi l’un l’altro pur di non fermarsi ad ascoltare se stessi in una notte di stelle”
Sono le parole che Alexandros Panagulis, uomo simbolo della lotta alla dittatura dei colonnelli greci, pronuncia sul finale del testo di Sergio Casesi, Prigionia di Alekos, in scena in prima nazionale da domani al Teatro Niccolini di Firenze (regia di Giancarlo Cauteruccio, con Fulvio Cauteruccio nel ruolo del protagonista). I torturatori hanno fatto il loro sadico lavoro, il vecchio Tiresia è uscito di scena dopo aver annunciato la morte di ogni dio. E Panagulis resta solo con Dalì, il suo scarafaggio, l’unico suo compagno di prigione. «Perché gli uomini hanno così paura della libertà?» si chiede. È la domanda da cui è partito l’autore.
Curiosamente, l’anno della morte del poeta rivoluzionario greco coincide con l’anno di nascita di Casesi: 1976. «Anche se non ho vissuto quegli anni, Panagulis è al primo posto del mio Olimpo personale. L’ho amato grazie a Un uomo di Oriana Fallaci, che è stata la sua compagna e che gli ha dedicato quel libro bellissimo. Le sue poesie, tutto quello che ha scritto e fatto, rappresentano per me un modello. Alekos è l’ultimo eroe di una mitologia antica, più vicino a Ulisse che a Che Guevara. Per questo gli ho messo accanto personaggi come Caronte e Tiresia» dichiara Casesi, musicista (è prima tromba nell’Orchestra lombarda I pomeriggi musicali) e scrittore, che con Prigionia di Alekos ha vinto il premio Pergola per la drammaturgia nel 2015.
Nella scena immaginata da Cauteruccio, le figure mitiche si muovono sui resti di un teatro crollato sotto i corpi violenti del regime. C’è però una via di fuga, uno spazio poetico che si sottrae alla sterile crudeltà della tortura. «Panagulis finisce in carcere per aver tentato di uccidere il dittatore Papadopoulos» conclude Casesi. «Nonostante le sevizie, sceglie di non dire i nomi dei compagni coinvolti. Usa, invece, la parola per inventare delle storie e cantarle a voce alta. I detenuti le aspettavano ogni notte. Non è questa forse l’immagine più pura della libertà?».